La sesta estinzione

Sulla definizione del genere letterario “non-fiction” non esistono ancora definizioni precise e univoche. Qualcuno ne parla come di un saggio sfumato con l’arte del romanzo; qualcun altro come di un romanzo che usa i principi oggettivi della saggistica. Di certo vi è la sua natura ibrida che sembra ben adattarsi alle esigenze del lettore .

Di questo adeguamento letterario, peraltro tanto giovane, Elizabeth Kolbert ne ha fatto di necessità virtù: con l’idea di raccontare ciò che sta avvenendo al nostro pianeta, un’idea ben organizzata e romanzata, è riuscita a vincere il Premio Pulitzer nel 2015. L’idea presuppone la descrizione dei dati raccolti nell’ambito della cosiddetta “Sesta Estinzione“, fenomeno che ha dato il titolo al libro (nella versione originale con sottotitolo An Unnatural History tradotto letteralmente) edito in Italia da Neri Pozza (2014), ripubblicato da Beat edizioni (2016) e vincitore del premio di cui sopra.

Per capire la maestria dell’autrice e la potenza del genere non-fiction, basta leggere l’incipit:

Gli inizi, si dice, tendono a restare avvolti nell’ombra.
È il caso di questa storia, che comincia con la comparsa di una nuova specie animale, forse duecentomila anni fa. La specie in questione non ha ancora un nome- nulla ha, ancora, un nome-, ma possiede la capacità di dare un nome alle cose.
(Il capoverso è dell’autrice.)

La specie in questione è la nostra, Homo sapiens, e lo scenario inquietante che si intravede da queste prime battute di tastiera si riferisce a qualcosa di naturale: le estinzioni. Naturale, sì, fino all’arrivo della nostra prepotenza. L’uomo infatti in poco meno di duecento mila anni ha completamente stravolto le sorti del nostro pianeta, dando inizio ad un periodo denominato “Antropocene” di cui tanto dovremmo sentirci responsabili. Deturpamento ambientale, perdita massiccia di specie, cambio degli equilibri ecologici sono solo alcuni dei fenomeni innescati dalla nostra presenza. Sia ben chiaro: oggi facciamo mea culpa con cognizione di causa, ma i processi succitati sono iniziati in contemporanea con la comparsa di quel bipede di cui siamo i diretti discendenti, e sono andati di pari passo con lo sviluppo della società umana. Ad esempio, basti pensare che la massima perdita di biodiversità, con tutte le conseguenze del caso, si è avuta in contesto imperiale romano. E questo avveniva duemila anni fa, non in epoca Trump.
Con lo sviluppo della società umana, si sono aggiunti altri fattori che hanno un sapore orwelliano, quali le emissioni di CO2 in atmosfera con conseguente acidificazione degli oceani, o la sempre più presente importazione di specie aliene in territori per loro vergini, un fenomeno, quest’ultimo, spesso sottovalutato ma di enorme impatto. Come tende a sottolineare l’autrice, “si stima che un terzo del totale dei coralli che costituiscono la barriera corallina, un terzo di tutti i molluschi di acqua dolce, un terzo degli squali e delle razze, un quarto di tutti i mammiferi, un quinto dei rettili e un sesto di tutti gli uccelli siano destinati a scomparire”. Ad oggi, un dente ce lo siamo tolto: il National Geographic ha già dichiarato morta la barriera corallina; speriamo di non rimanere sdentati con i sempre più “destinati a scomparire”.
Già, “destinati a scomparire”. Scomparire è come dire estinguersi, un fenomeno naturale e con i suoi tempi dettati dall’orologio terrestre, e non accelerati e/o amplificati dall’ultimo arrivato. (Che poi, fino all’arrivo di Cuvier- che Dio l’abbia in gloria-, nessuno aveva mai pensato alla scomparsa di interi gruppi biologici, e quindi nessuno aveva mai preso in considerazione tale concetto. Figurarsi disquisire sul fenomeno.)

D’altro canto, la storia della terra ha già visto tra i suoi capitoli cinque potenti momenti storici denominati “Big Five”, cinque grandi momenti di crisi di diversità biologica che nulla hanno a che fare, però, con l’uomo. Ma che, di contro, hanno permesso, per esempio, la radiazione adattativa dei Mammiferi quando un meteorite ha intercettato la Terra, causandone di riflesso la scomparsa dei dinosauri ma lasciando spazio a sufficienza per tramandare prole a quel gruppo tassonomico che tanto faticava ad emergere. Da quì, si è arrivati a quel bipede tuttofare, prepotente ed eponimo.

Ma sta proprio nella duplice natura del fenomeno estinzione per il quale lo si considera naturale: se da un lato vengono a mancare interi gruppi tassonomici, dall’altro tali mancanze possono contemporaneamente dare il via a diversi processi speciativi, ossia a quei processi che portano alla formazione di un nuovo gruppo tassonomico. Ciò che però si sottovaluta è la scala temporale: eventi del genere si sono verificati in milioni di anni, e non in una manciata di millenni.

Elizabeth Kolbert parlandoci di estinzioni preferisce avere dei punti fissi, alcuni attuali, altri passati, molti estinti per cause naturali, molti altri per motivi antropici. Ogni protagonista è il leitmotiv di un capitolo ed è diagnostico per l’argomento da sviluppare: la rana d’oro sudamericana funge da apripista, mentre l’alca gigante, le ammoniti, i granchi, la categoria tassonomica dei molluschi, i pipistrelli, i rinoceronti, i marsupiali, nonchè la flora in generale e il cugino Homo neanderthalensis ci accompagnano per tutto il testo. In cui non mancano gli interventi di esperti e i riferimenti ai grandi studiosi del passato.

“La vera forza di questo libro- dice il New York Times- risiede nel contesto scientifico e storico che la Kolbert riproduce documentando le innumerevoli perdite che gli esseri umani stanno lasciando dietro di sè”.
L’intero libro gioca con varie scale temporali, alternando presente e passato, spiando al futuro e descrivendo eventi storici di enorme portata. Il tutto con rigore degno di nota.
Dalle pagine trasudano una delicata passione per la vita e tanto rispetto per la morte, mentre tra le righe aleggia un lieve senso di colpa dal gusto a tratti distopico, a tratti fantascientifico: ti arriva lo schiaffo quando capisci che invece, a prescindere dal naturale o meno, è tutto reale. Purtroppo.

Breve nota biografica sull’autrice: Elizabeth Kolbert è una newyorkese di tutto rispetto: è stata redattrice del Times (dal 1992 al 1997), mentre al momento si occupa di cambiamenti climatici e riscaldamento globale per il New Yorker. Tra le sue opere figura Field Notes from a Catastrophe: Man, Nature, and Climate Change (Bloomsbury, 2006). Con La sesta estinzione ha raggiunto i massimi vertici della divulgazione, vincendo nel 2015 il premio più prestigioso per uno scrittore: il Pulitzer- in questo caso per la categoria “non-fiction”.

P.s.
La quarta di copertina di un libro dovrebbe descrivere a grandi linee il tema centrale del testo. E’ quindi un importante biglietto da visita, che deve essere compatto, preciso e sintetico. Ma deve essere anche e soprattutto corretto. Entrambe le edizioni pubblicate in Italia (Neri Pozza e Beat) non hanno tenuto conto però nè della precisione nè forse dell’argomento del testo, che vorrei ricordare, è un Premio Pulitzer: sostengono che le “Big Five” sono state opera dell’uomo, e sconoscono completamente quelle poche regole che sostentano la letteratura scientifica. Di seguito, la presentazione incriminata:

[…] La specie che ha alterato in tal modo la vita del pianeta si è autonominata, a un certo punto della sua storia, «specie dell’homo sapiens» e, tra le catastrofi da essa causate, cinque sono state così grandi da meritare il nome di «Big Five». Questo libro, che ha avuto uno strabiliante successo al suo apparire negli Stati Uniti, ripercorre la storia dei «Big Five» per gettare luce su un altro allarmante evento che gli esseri umani stanno producendo. È presto per dire se esso è comparabile, per forza e portata, ai «Big Five», ma è in corso ed è noto col nome di Sesta Estinzione. […]
(Dal sito di Neri Pozza)

Peccato incappare in un errore così grossolano.